Non mi è difficile scrivere poesie per queste Nuove Storie di Michele Rigoni.
Quando mi arrivano ci devo fermare gli occhi sopra, devo scenderci dentro come con un microscopio. E a poco poco credo di capire dove Michele vuole arrivare, che cosa va definendo in questo atto creativo, silenzioso e ritirato, quando mi spedisce per whatsapp anche il titolo di chiusura della sua opera e basterebbe solo questa informazione, che arriva alla fine e non all’inizio, per confermare che ci si trova dentro ad una trama di ricerca che nelle ore è divenuta narrativa.
È proprio delle fasi di questo procedimento espressivo che vorrei parlare, perché è lì che si annidano i sottoboschi del lavoro, quei profumi poetici che spingono poi anche me alla scrittura.
Innanzitutto, la ricerca del materiale.
Vecchie cartoline, album di memorie, fotografie raccolte in mercatini o in cassetti di intimità. Tutto rigorosamente datato e che ha “viaggiato” , tutto che ci parla di persone, amori possibili, di amicizie di gruppo e di luoghi del piacere, di paesaggi dimenticati e di curiosità dell’esplorare. Come a dire di quel vecchio tempo che nelle esperienze non è diverso da oggi per ognuno di noi, nell’equilibrio precario tra voglia di andare e voglia di restare, passioni amorose e nostalgie d’assenza, difficoltà di solitudini e sogni di paradiso (ed ecco qui, in questo passaggio all’universalità, qualcosa che senz’altro odora di poesia).
Michele raccoglie tutto questo, e già sarebbe interessante sapere che cosa ferma il suo sguardo, che cosa intravede in un dettaglio, un guanto, una cima di montagna, una finestra, un’insegna: qualcosa che lo colpisce perché sarà proprio quel qualcosa che a breve, e velocemente, andrà trasformato.
E questo è solo il primo momento che, quasi per paradosso, si gioca tutto negli spazi esterni (questa dialettica spazi esterni/spazi interni a mio parere va sottolineata, perché tutto il suo cercare è dentro il concetto di spazio, ma anche il suo stesso vivere).
Segue la seconda fase, sul tavolo di lavoro, in segretezza, nel proprio microspazio fermo e ordinato, al riparo (finalmente) dal mondo e da connessioni tecnologiche.
In questa seconda fase Michele metterà a fuoco e sceglierà due e solo due cartoline/foto i frammenti dei materiali che ha a disposizione per provare a confonderli, a sovrapporli, coinvolgendo persone e architetture, paesaggi e amenità, abiti e piazze; frammenti che, rimescolati su armonie esteticamente governate, ci aprono scenari teatrali, paradossi lievi, persino stratificazioni tridimensionali di materie differenti, quasi che anche l’esperienza tattile ne entri a far parte.
Michele si lascia portare da tutto: non solo da folgoranti curiosità visive, da stupori quasi infantili, ma anche dalle tracce della scrittura, quelle tracce che esistono e raccontano di storie tutte da ricostruire: le città di provenienza delle cartoline, le righe dei saluti, i nomi dei nonni con calligrafie a mano sul retro delle fotografie, le firme piene di svolazzi, le dediche di commozione, i brevissimi resoconti di viaggio con francobolli esotici.
Mescola tutto, mette le mani con delicatezza su un materiale che sa essere molto prezioso, unico : nella lentezza di questo gesto e nell’esattezza della sua precisione, affermerà la gioia di avere trovato originali collegamenti, di aver fatto un passo in più negli incroci umani, di avere fermato un momento che era di Giovanni e adesso è diventato di Rita, una Roma invasa da elefanti o improbabili sedie volanti su grattacieli, bambini che si trovano sotto arcate capovolte, ma soprattutto momenti che diventano di tutti noi che li guardiamo, momenti che intrecciano inventano/creano nuovi mondi.
Ed ecco allora l’ultima fase, in un crescendo creativo: la fase che esce completamente dal controllo del pensiero e del racconto; una fase ancora in piena ricerca, che scivola fuori dalla narrazione e arriva a richiamare la originaria confidenza con il gusto del disegno, con l’attrazione dei colori pieni, con il gusto di sporcare con colori e pellicole il bianco assoluto.
Dalla composizione quasi in miniatura che, come sotto una lente di ingrandimento, è stata lavorata, Michele torna a voler dilatare, uscire, ingrandire.
Prende in mano penne e stilografiche e studia – da fuori e non più da dentro – lo spazio della sua opera, sente dove gli sembra troppo stretto, prolunga un’architettura, moltiplica gli alberi di un bosco, arrotonda la piazza, dilata le nubi fuori dal perimetro che ci è dato.
Il suo disegno si appropria di quello spazio e lo fa nuovo, lo espande sotto i nostri occhi. Non abbiamo più cornici, l’arte contemporanea ce lo ha insegnato, le strade si aprono e possono solo continuare nell’immaginazione, a favore di un’intuizione di direzione che ci è solo suggerita.
Siamo sì figli del Novecento, sembra dire. Eppure c’è uno spazio-tempo fuori da queste cornici che non si riesce a chiudere. Ma tantomeno a ignorare.
Quelle fronde a china che aumentano la prospettiva, quelle strisciate di colore quasi ingombranti, quegli angoli obliqui di classiche cornici che sembrano spinte fuori e lontano con volontà, ci aumentano il respiro e ci regalano il senso del presente. Ci costringono a spalancare il pensiero, e dopo averci risvegliato le memorie, ci fanno anche sorridere. Ci muovono da dove siamo. Spostano lo sguardo e l’emozione. Nella direzione di questo nostro tempo attuale, che è fragile, ma c’è; dentro il nostro presente di terzo millennio ancora da inventare, che non può più solo fermarsi a gratitudini e ricordi, ma da cui dobbiamo decidere quali cammini seguire, come seguitare a scoprire il nuovo, il luminoso, l’aperto.
Patrizia Rigoni
ottobre 2023
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